Processo Barbarossa
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La sentenza di primo grado
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Per i PM è ‘ndrangheta
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Salvatore Stambè: “comandavamo noi, la gente era ormai sottomessa”
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Asti: studenti partecipano a un processo di mafia
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Michele Stambè in aula
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Il timore di testimoniare
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30 soggetti rinviati a giudizio
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L’appello di Libera sull’operazione di Asti contro la ‘ndrangheta
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L’esistenza di una cellula di ‘ndrangheta operante nell’astigiano è stata accertata, in esito all’operazione “Barbarossa”, dalle sentenze di primo e di secondo grado emesse tra ottobre 2019 e maggio 2021 dai Tribunali di Torino e di Asti e dalla Corte di Appello di Torino.
L’indagine era stata avviata grazie agli elementi emersi in precedenti inchieste condotte in diverse parti del territorio nazionale quali Crimine (Calabria), Infinito (Lombardia), Minotauro e Albachiara (Piemonte) e Maglio (Liguria), nonché alle intercettazioni ambientali: nell’agosto 2009 veniva captato in un agrumeto di Rosarno (RC) il dialogo fra un boss di ‘ndrangheta e alcuni affiliati “piemontesi” che chiedevano l’autorizzazione per distaccarsi dalla cellula dell’alessandrino ed aprire un nuovo “locale” ad Alba (CN).
La nuova struttura attiva nella provincia di Asti (in particolare nel capoluogo, a Costigliole d’Asti, Agliano Terme, Isola d’Asti) era formata da membri appartenenti a tre famiglie (‘ndrine) e capeggiata da soggetti già condannati in via definitiva per 416-bis del Codice Penale. Gli affiliati a tale cellula – strutturata secondo il modello della “casa madre” calabrese e denominata “bastarda” dai suoi stessi appartenenti per il mancato assenso a costituirsi in via autonoma – sono stati riconosciuti autori, fin dal 2012, di numerosi atti intimidatori, danneggiamenti e condotte estorsive a danno di imprenditori, lavoratori e cittadini che abitavano nelle zone controllate.
È stato inoltre accertato che i membri del gruppo criminale si sono inseriti nel tessuto economico procacciando opportunità di lavoro dietro pagamento e gestendo direttamente società sportive. Hanno intrattenuto rapporti con imprenditori locali che si rivolgevano a loro per danneggiare concorrenti, riscuotere crediti e, in generale, per risolvere situazioni problematiche. Circostanze tutte che, secondo i giudici, dimostrano il controllo diffuso dell’organizzazione sul territorio e che hanno spinto la popolazione locale, che aveva chiaramente percepito la capacità intimidatoria dei membri del sodalizio, a soggiacere, senza opporre resistenza, alle pretese del clan.
Il metodo mafioso, attuato in diverse forme, ha creato quindi un clima di assoggettamento e omertà attribuibile non solo al timore di ritorsioni ma anche a un relativo consenso sociale che il gruppo criminale è riuscito a conseguire, evidenziando una preoccupante permeabilità del nostro territorio alla cultura mafiosa.
Proprio per spezzare il silenzio e l’omertà che costituiscono il terreno di coltura delle mafie i volontari di Libera Asti, insieme a rappresentanti di Libera Piemonte, hanno partecipato alle udienze del processo. Entrare nelle aule di tribunale vuol dire assumersi la responsabilità di scegliere da che parte stare, di difendere il diritto di vivere in una società in cui i valori della denuncia, della legalità, della solidarietà devono prevalere sulle regole imposte dalle organizzazioni criminali.
Scarica il dossier completo di Libera Piemonte sull’operazione Barbarossa